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Change the way, il grido degli studenti

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Change the way: la lotta non si ferma, e la stagione delle proteste non è ancora finita

Change the way

Change the way” è stato lo slogan che ha unito ancora una volta, in questo “autunno caldo”, gli studenti medi e universitari scesi in piazza insieme ai lavoratori lo scorso 15 novembre per protestare contro la Legge di stabilità, i finanziamenti alle scuole private e per chiedere più diritti e fondi all’istruzione pubblica. Un nuovo episodio degli studenti indignati, che vedono compiersi davanti ai loro occhi l’aberrazione del diritto allo studio: aule sovraffolate, edifici barcollanti, scuole senza soldi costrette a chiedere ed imporre contributi sempre più alti alle famiglie, borse di studio ridotte al minimo e costi di mense, libri e trasporti in continuo aumento.

All’inizio dell’anno scolastico, il governo Letta ha aperto le danze con grandi proclami e decreti propaganda, ma tolte le chiacchiere all’istruzione ha riservato solo 400 milioni di euro a fronte dei 10 miliardi di euro tagliati negli ultimi anni dai governi Monti e Berlusconi. Letta, che da una parte favorisce la scuola pubblica, dall’altra però ha elargito 230 milioni per le scuole private, in aggiunta a quelli che già versava (223 milioni l’anno). A corollario di una situazione già abbastanza complessa e deviata, incombe la minaccia dell’ingresso di capitali privati nelle scuole pubbliche proposta dal ministro Carrozza, operazione che, a detta degli studenti, oltre ad essere pericolosa – in quanto il privato andrebbe ad influenzare la didattica e le scelte scolastiche – mostra ancora una volta quanto Pd e Pdl siano clamorosamente uniti nel delegare al privato il finanziamento dell’istruzione pubblica.

Di fronte a queste preoccupazioni, si sono mobilitati studenti di tutte le città d’Italia, da Milano a Palermo, passando per Bologna, Roma e Napoli, una folla immensa di giovani che hanno sfilato in una giornata infuocata di aspettative, rivendicazioni e speranze. In alcune città, come Roma, la pioggia non ha cessato mai di scendere impetuosa, come questi ragazzi che hanno inondato le piazze con la voglia di far sentire il loro grido e cercare, di rimando, una risposta concreta. Nella capitale la giornata si è aperta con un blitz davanti al ministero dell’istruzione in viale Trastevere, per porre al ministro Carrozza una lista di “dieci domande” per “invertire la marcia”. A marzo, ricordiamolo, il (non ancora) ministro, in un‘intervista aveva dichiarato di voler “stravolgere scuola, università e ricerca” e “convincere gli italiani che l’istruzione e la ricerca sono importanti”. E ora sono gli studenti a chiedere di passare dalla teoria alla pratica, perché non c’è più tempo per le parole, alle promesse devono seguire i fatti.

Il Dl da poco approvato alla Camera è lastricato di buone intenzioni, ma non è sufficiente. Occorrono investimenti più seri e mirati, e una riforma strutturale, a partire da una legge nazionale per il diritto allo studio che, allo stato attuale delle cose, continua a favorire le disuguaglianze tra regioni. Nella lista delle “dieci domande” si chiedono: un welfare studentesco, una riformulazione dei criteri di valutazione, una riforma dei cicli, l’abolizione dei test invalsi, del numero chiuso, del turn-over e – materia che sta molto a cuore ai giovani universitari – la diminuzione delle tasse. Il fondo di finanziamento ordinario è sceso parecchio negli ultimi anni e l’unica leva dalla quale riescono ad attingere le università per change the waybilanciare la situazione sembra essere solo quella delle tasse degli studenti. Negli ultimi anni, infatti, le tasse sono aumentate del 60%, nonostante siamo il terzo paese in Europa per importo delle stesse. In uno stato di crisi cronica e di tassazione alle stelle, studiare è ormai un lusso che pochi si possono permettere. Il Governo ripete come un mantra di volere una cultura accessibile a tutti ma, di fatto, ogni anno migliaia di studenti in condizioni economiche disagiate sono tagliati fuori dall’università, laddove invece bisognerebbe investire sulla conoscenza come seme di un progesso umano e sociale, condizione necessaria per lo sviluppo economico, come sosteneva Benjamin Franklin già nel lontano Settecento.

In un’indagine recente dell’Eurostat si dimostrava che “studiare conviene” perché rende più probabile trovare un lavoro: nel 2011 in media nell’Unione europea lavorava l’86% dei laureati tra i 25 e i 39 anni, contro il 77% dei diplomati. Dati che fanno a cazzotti con la condizione dei laureati italiani, che hanno una probabilità di essere occupati pari a quella dei diplomati, con l’aggravante di aver versato per anni un salasso ineguagliabile in termini di tempo, denaro e sacrifici. L’Italia resta un paese in cui l’istruzione è una semplice voce di bilancio su cui da anni non si investe, in cui la qualità della formazione è vista come un peso per il mondo del lavoro e i giovani vivono in un precariato che non dà loro la possibilità di costruirsi un futuro. Perchè non si investe abbastanza sull’istruzione, unico reale ascensore sociale del Paese? Perchè piuttosto che investire sulla conoscenza si spendono soldi in opere discutibili come i Tav o in spese militari, come il caso recente della portaerei Cavour? Le vie del governo sono imperscrutabili, come lo sono i soldi che circolano.

Manifestazioni di eco nazionale come quella del 15 novembre sono un momento di importante messa a fuoco dei problemi che gravano sul Paese e in particolare sulle giovani generazioni, coloro che portano il fardello più pesante della crisi, perchè sono gli adulti di domani che partono con uno svantaggio clamoroso, mai registrato nella storia, a causa di una recessione che ha caricato su di essi i problemi attuali, destinati a protrarsi nel tempo. Negli occhi di questi ragazzi c’è tutta la rabbia, la frustrazione e la voglia di riscatto. Lungo le strade delle città italiane hanno alzato i loro striscioni, hanno gridato contro le politiche di austerità, contro le logiche di mercato nelle scuole, contro il governo che li ignora e non investe abbastanza su di loro; con la loro marcia hanno bloccato le strade e mandato in tilt il traffico, perché solo lottando in questi termni si possono ottenere diritti. Emerge prepotente il desiderio di tornare a essere una priorità politica nell’agenda del paese e la rivendicazione di un domani più dignitoso.

I giovani vengono considerati una “piaga” a cui, troppo spesso, si sceglie di non dare risposta. “Bamboccioni”, “fannulloni”, “choosy”, “sfigati” e  “poco occupabili”, questa è la considerazione che la nostra classe politica ha delle nuove generazioni, ragazzi con tanta voglia di fare – e di essere – ma condannati a faticare in maniera disumana per ottenere le briciole di quello che resta. L’unico modo per ripartire da zero è invertire la marcia: “Change the way. La lotta non si ferma, e la stagione delle proteste non è ancora finita.

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